Un potenziale nuovo strumento per fronteggiare l'Alzheimer

Un risultato potenzialmente molto importante per la lotta all’Alzheimer. Un gruppo di ricercatori dell'Università di Lund, Svezia, ha sviluppato un modello che può predire la comparsa di questa malattia entro quattro anni, combinando un esame del sangue con alcune informazioni sul paziente: età, genere, livello di educazione e le sue prestazioni in un test cognitivo di base. Un metodo specifico, veloce e accessibile, che consentirebbe una diagnosi certa e rapida. Con risparmi economici e aumenti nella qualità di vita dei pazienti e dei loro familiari.

Attualmente, infatti, la diagnosi è certa soltanto quando la persona viene a mancare, in genere entro circa sette anni dall’insorgenza dei primi sintomi. Prima di allora si parla di Alzheimer probabile o possibile, sospettato tramite numerosi (e costosi) esami. Come mai? Il disturbo scoperto da Alois Alzheimer nel 1907 è soltanto uno tra i molti tipi di demenza esistenti, anche se ne costituisce la maggioranza dei casi (70% circa). Con questi, e altre patologie, condivide gran parte dei sintomi: perdita di memoria, alterazioni della personalità, difficoltà a parlare, a ragionare e, nelle fasi più avanzate della malattia, a eseguire movimenti volontari semplici. Al momento, soltanto l’aspetto del cervello, osservato dal vivo, permette di distinguere con certezza l’Alzheimer dalle patologie simili. Questa analisi consente infatti di riscontrare le placche amiloidi e gli intrecci neurofibrillari, ovvero accumuli di proteine e residui di cellule neurali derivanti dal deterioramento del cervello dell’Alzheimer.

La tecnica innovativa sviluppata dal gruppo di ricerca guidato da Oskar Hansson e Niklas Mattsson-Carlgren consentirebbe di risolvere questi problemi. Il loro metodo sarebbe, infatti, specifico per questa malattia, poiché rintraccia la tau fosforilata e il neurofilamento leggero (NfL), proteine prodotte dalla degenerazione cerebrale dell’Alzheimer. Lo studio dei ricercatori svedesi, pubblicato questo novembre sulla prestigiosa rivista Nature, deve però trovare ancora conferma tramite ulteriori studi.

Se lo studio si rivelasse fondato, eviterebbe ulteriori esami e consentirebbe di intervenire precocemente con le terapie attualmente disponibili. Non esiste ancora una cura, ma queste consentono di aumentare l'aspettativa di vita della persona, a maggior ragione quando somministrate sin agli esordi della patologia. Inoltre, una diagnosi precoce rende possibile educare meglio i pazienti e i loro familiari a trattare con la patologia, sia per quanto riguarda farmaci e comportamenti, sia adattando l’ambiente alle necessità della persona e di chi se ne prende cura. Un impatto significativo, dal momento che la malattia di Alzheimer colpisce circa il 5% degli ultrasessantenni: solo in Italia ne sono affette oltre mezzo milione di persone, e si stima che la sua incidenza triplicherà. Questo disturbo, inoltre, spesso porta con sé depressione e altre conseguenze psicologiche gravi per il malato e i suoi cari, che sarebbero diminuite in quanto una diagnosi certa ridurrebbe gli stress emotivi (e i costi) legati ai molteplici esami oggi necessari per la diagnosi. Un importante passo verso la vittoria su una grave patologia su cui c’è ancora molto da scoprire. 





Fonti:
2. Nature 

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